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La Famiglia e la Vita umana nel messaggio di Ghiaie

 

 


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Di fronte alla malattia

essere prossimi


Una persona sofferente ci chiede di essere prossimi alla sua realtà, come se quelle sofferenze fossero anche nostre: prossimi, cioè vicini, solidali, premurosi, disponibili a fermarsi, a fare qualcosa, a soccorrere, ad aver cura, come fece il samaritano della parabola evangelica (Lc 10, 29-37). Il termine prossimo, generalmente si collega col ferito sulla strada di Gerico. Quell'uomo è il simbolo di quanti, lungo la strada della loro esistenza, sono immobilizzati dalla malattia. Egli è il prossimo bisognoso verso il quale devono rivolgersi le attenzioni dei sani.

Quest'interpretazione è corretta. Ma nella spiegazione che dà Gesù della parabola, prossimo è colui che ha avuto compassione dell'anonimo incontrato a caso. Ciascuno di noi deve potersi definire così: io sono il prossimo. Nella parabola, farsi prossimo ha comportato l'incontrare un uomo in una situazione di grave sofferenza, provarne compassione, farsi vicino, fasciare le ferite, caricarlo sul suo giumento, portarlo ad una locanda, prendersi cura di lui, pagare per lui, tornare indietro per pagare eventuali spese supplementari. Sono i verbi del soccorso volenteroso, dell'interessamento, del dono di sé e del proprio tempo, della disponibilità più ampia a compiere quegli atti dovuti che la situazione esigeva.

La figura del buon samaritano ci presenta Gesù che si occupava dei ciechi, degli storpi, dei lebbrosi, dei sordi, cioè dei malati affetti da patologie gravi e disabilitanti. Una giornata tipo di Gesù ci viene descritta dai Vangeli sinottici in atto di trattenersi a lungo con i malati e prenderne cura.

L'immagine del samaritano è un esempio per gli apostoli, i quali dovevano unire alla predicazione la cura dei malati: «Predicate che il regno dei cieli è vicino, guarite gli infermi, sanate i lebbrosi, cacciate i demoni» (Mt 10, 8). «Quando entrerete in una città, curate i malati che vi si trovano e dite loro: si è avvicinato a voi il regno di Dio» (Lc 10, 8-9). «Diede a loro (ai dodici) potere e autorità su tutti i demoni e di curare le malattie. E li mandò ad annunziare il regno di Dio e a guarire gli infermi (Lc 9, 1-2)».
La storia documenta che la linea di azione tracciata da Gesù Cristo è stata rispettata dalla Chiesa delle origini, ma ora ciò non sempre e non ovunque avviene.

Ognuno di noi incontra in forme nuove e angosciose il problema del dolore. È utopia sperare che il progresso scientifico lo riduca o anche lo cancelli dall'esperienza degli uomini. Le stesse possibilità di cura e gli strumenti clinici più sofisticati, quando non sono accompagnati da umanità in chi li applica e da sincera partecipazione alla situazione degli assistiti, offrono motivi supplementari di sofferenza e di turbamento.

La visita al malato e la stessa professione sanitaria non possono ridursi ad esercizio freddo e impersonale, ma devono essere incontro tra persone.

L'umanizzazione dell'attività sanitaria ha una dimensione spirituale; offre non soltanto una cura, la migliore possibile nel quadro della cultura scientifica, ma anche la solidarietà, la comprensione degli stati emotivi, il sostegno fraterno. La competenza scientifica, frutto della cultura evoluta e sottoposta a continui aggiornamenti, deve mettersi al servizio della persona ferita nel corpo, sconvolta nell'animo. Per portare il mondo della sanità all'altezza della sua responsabilità, la comunità cristiana deve farsi prossimo e immettere nel vasto rinnovamento civile e sociale della sanità, la verità di base della fraternità degli uomini tra loro e l'impegno di realizzarla: tutti pari a noi, degni di rispetto, di considerazione positiva, di assistenza e di amore. L'ispirazione cristiana comporta che nella cura dei malati, si valutino adeguatamente i beni morali, spirituali e religiosi degli stessi. Lo spirito di amore, di solidarietà, di servizio, cui il malato reagisce con sollievo e gratitudine, apre i sentieri della maturazione spirituale che conduce a Dio.